Via Francigena. Giorno 67 – da Torchiarolo a Lecce

Questa mattina ci siamo svegliati con un bel sole. Rispetto alla giornata di ieri è stato come svegliarsi facendo un grosso respiro di sollievo. Ancora ho impresse in me le immagini degli alberi quasi piegati dal vento e il rumore della pioggia sulla mantella.

Paolo ha preparato la colazione, dalla cucina viene un buon profumo. L’ex asilo ci ha dato un grande senso di familiarità, per una notte ci siamo sentiti di nuovo a casa. La distanza che dobbiamo percorrere oggi sulla Via Francigena è breve. Torniamo a seguire la mappa dopo il tentativo di ieri, andato a finire come ben sapete.

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La prima parte, come molta della strada camminata in Puglia, è tutta su una strada sterrata in mezzo agli ulivi. Lasciato l’ex asilo quindi, ci incamminiamo. Ci dirigiamo verso il cimitero, ultimo baluardo del paese e poi prendiamo la fatidica via in mezzo agli ulivi.

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Mentre camminiamo tra le pozze immense, parliamo un po’ della giornata di ieri. Ad entrambi ha lasciato un segno dentro, penso che me la ricorderò fino al prossimo giorno di cammino sotto un sole da 34°C. Dopo poco più di un’ora arriviamo alla magnifica abbazia di Santa Maria a Cerrate. Con grande dispiacere la troviamo piena di impalcature per i restauri organizzati dal FAI. La ragazza che gestisce le entrate non ci permette di mangiare le due cose che abbiamo nel giardino interno alle mura, ma ci sistema in una delle stanze ultramoderne in costruzione.

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Nell’antico complesso possiamo vedere un vecchio frantoio, un tipo di vecchia abitazione del salento e diversi affreschi anche loro in fase i restauro. Dopo la visita ci rimettiamo in cammino e, dopo molti giorni, torniamo ad attraversare un campo di pale eoliche. Paolino ha ragione a dire che le prime che vedi ti incuriosiscono e in seguito un po’ stancano.

Ci immettiamo su una strada che viene chiamata provinciale, ma che in realtà è una lingua di asfalto tra gli ulivi. Mancano pochi giorni, ma non ci voglio pensare. La stanchezza ormai si fa sentire subito dopo le prime tre o quattro ore di strada. Non è fisica, quanto più mentale. Ammiro chi riesce a stare in strada molto più a lungo, ma il fatto di avere pochi supporti, spesso pesa.

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Non ci sono scuse, o giustificazioni dietro alle quali mi nascondo. Certo la determinazione è ancora tanta, ma la concentrazione, o i lunghi silenzi tra me e Paolo non aiutano di certo nel lungo periodo. Camminare tenendo ognuno il proprio passo e gustare della natura dei luoghi ha il suo perchè, però dopo un po’ subentra la voglia di arrivare. Quando entriamo a Surbo, al contrario di quanto suggerisce la guida, è già passato mezzogiorno da un pezzo. Facciamo sosta da un panettiere e poi nella piazza principale davanti ad un bar. La gente è come sempre incuriosita dai soliti due alieni che camminano. Veniamo da un’altra dimensione, non possiamo negarlo.
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Mangiamo seduti sulle panchine e per terra. Paolo all’ombra e io al sole. Ci togliamo le scarpe. Io mi sdraio. Non abbiamo più vergogna di nulla. La strada, le piazze, sono diventati casa nostra. I nostri salotti. Le nostre cucine. Una per ogni paese che attraversiamo. Siamo diventati immuni alla curiosità delle persone. La mia barba sta ricominciando a crescere e mi dà un aspetto molto più disordinato di quando l’avevo tagliata ad Artena. Già, Artena. Don Daniele, Silvia e gli altri ragazzi. Nel frattempo che noi siamo giunti qui, loro avranno già terminato il loro viaggio in Etiopia. Noi siamo ancora in cammino. Prendo un caffè e rivelo alla barista e agli anziani, che da un po’ ci fissano, la nostra provenienza e il nostro fine. Penso che la bocca di alcuni sia ancora aperta come quando ho detto loro di venire dalla Val d’Aosta a piedi. Quando esco controlliamo sul navigatore. Il B&B dove dormiremo stasera (già B&B perchè a Lecce nessuna parrocchia ospita, ci avevano fatto un sacco di promesse, andate poi a finire in nulla) si trova fuori dal centro, quindi è inutile seguire la mappa a meno di voler fare strada in più, e noi non vogliamo farne. Lasciamo la traccia della guida pr tagliare verso la parte ovest della città.
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Quando arriviamo troviamo Osvaldo, il padrone, che ci aspetta. E’ molto gentile e ci prepara un caffè leccese, con ghiaccio e latte di mandorla. Molto buono. Mi rimette di buon umore. Solita doccia per scacciare via la fatica della giornata e finalmente nel letto. Dormo le solite due ore, prima di andare in centro alla ricerca di una chiesa per farci timbrare la credenziale.
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Arriviamo alla cattedrale e aspettiamo la fine della messa per riuscire ad ottenerlo. Poi giriamo un po’ per il centro. L’architettura dei palazzi cambia di molto rispetto alle città alle quali, da dopo Bari, ci siamo abituati. Non ci sono viette bianche nelle quali passeggiare, ma grossi viali dove la gente si affolla tra bar e ristoranti. Non sono in vena per assaggiare Lecce nei minimi particolari, vorrei solo andare a letto e ripartire. Troppo caos, ma è normale. E’ sabato sera. Mentre rientriamo osservo un ragazzo che dorme con un sacco a pelo sotto un portico con il suo cane. Gli lascio cadere qualche moneta. Dormono beati, anche se di beato agli occhi di chi passa non hanno nulla. Ma forse la beatitudine sta proprio qui, nel non avere nulla, di essere liberi di prendere e cambiare città, paese e panorami proprio quando vogliono. Un po’ come noi insomma. Il pensiero della cosa mi manda a letto felice. Domani lasceremo il caos di Lecce e cambieremo città, panorama e gente.

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Sto accusando un pochino, ma resisto.

D.

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